Moda e Sostenibilità Ambientale: Una delle industrie più inquinanti
1) Moda, inquinamento e sostenibilità
L’industria della moda si conferma uno dei settori con più grande impatto sui cambiamenti climatici che stanno mettendo a repentaglio l’ambiente che ci circonda. Secondo numerosi studi, la moda è responsabile del 10% del totale delle emissioni di gas serra, superando sia il settore dell’aviazione che quello della navigazione: un report di McKinsey però prevede che l’aumento esponenziale della produzione di indumenti e calzature, dovuto all’incremento della popolazione, porterà le emissioni a crescere addirittura fino a 2,7 miliardi di tonnellate entro il 2030. La situazione non migliora quando si prende in considerazione l’utilizzo di acqua da parte del settore tessile, pari a 93 miliardi di metri cubi e quando si nota che il 20% delle acque reflue è dovuto alla tintura per abbigliamento.
Si tratta di dati allarmanti, che sono stati presi in seria considerazione da gran parte degli attori dell’industria solo dopo gli accordi di Parigi del 2020; nonostante tutto, ancora oggi molte misure di contenimento vengono messe in atto solo nel processo di retailing, senza intaccare la supply chain. Tuttavia è proprio qui che si possono riscontrare le più grandi fonti di inquinamento, specialmente per la produzione di capi in poliestere e materiali simili e per l’industria della fast fashion, che fa grande uso di combustibili fossili; inoltre, l’utilizzo di mezzi inquinanti dedicati al trasporto e alle spedizioni di merce contribuisce al rendere la situazione ancora meno sostenibile. Alcuni brand, però, si stanno attivando nella direzione corretta, specialmente attraverso l’utilizzo della moda circolare, basata sul riciclo e sul riutilizzo di materiali e indumenti usati, o anche semplicemente attraverso la pubblicazione di report messi a disposizione di tutti in cui viene indicato l’impatto ambientale dell’azienda.
2) L’impegno dei brand
Alcuni brand non si sono voluti limitare all’implementazione di nuove tecniche produttive più ecologiche, ma hanno deciso di creare e firmare documenti ufficiali presentati durante meeting internazionali, sotto gli occhi dei più importanti capi di stato. Il primo esempio è la Fashion Industry Charter for Climate Action, un vero e proprio accordo facente parte della UN Climate Change (il ramo dell’ONU che si occupa della lotta contro i cambiamenti climatici), firmato da un centinaio di aziende attive nel mondo della moda e presentato in occasione della COP24 a Katowice, in Polonia. La missione dei partecipanti a questa iniziativa è quello di ridurre i gas serra del 30% entro il 2030 e di azzerarli entro il 2050, in modo da poter contenere l’innalzamento della temperatura globale sotto 1,5°; inoltre, l’obiettivo è anche la decarbonizzazione totale del settore della moda, che potrà essere reso oggetto di numerosi studi grazie alla divisione dei partecipanti in gruppi di lavoro con fini specifici.
Il secondo documento di rilievo è il Fashion Pact, nato da una richiesta di Emmanuel Macron al CEO di Kering, François-Henri Pinault, e presentato al G7 di Biarritz del 2020. Il patto, che comprende circa un terzo dei brand facenti parte dell’industria mondiale, pone obiettivi comuni a tutti i partecipanti e suddivisi in 3 macroaree: la biodiversità, gli oceani e soprattutto il clima. Gli obiettivi principali di queste tre aree sono la neutralizzazione della deforestazione entro il 2030, l’utilizzo di sola plastica riciclata per il B2C entro il 2025 e per il B2B entro il 2030 e infine l’utilizzo di sole energie rinnovabili entro il 2030.
Ovviamente non mancano anche altri documenti creati e firmati in maniera indipendente da organizzazioni e aziende che stanno cercando di combattere l’impatto ambientale nel mondo della moda, come può essere il caso del report di Stand.Earth, che ci dà una panoramica dettagliata dell’inquinamento che questo settore provoca ed elenca in 5 punti le azioni che aziende e individui dovrebbero compiere in modo da ridurre l’inquinamento provocato da questa industria.
3) Il modello Patagonia
Tra la moltitudine di aziende che si stanno affacciando al mondo della sostenibilità, Patagonia è stata precorritrice, spianando la strada ad altri brand grazie alle sue numerose iniziative. L’azienda, che è specializzata soprattutto in abbigliamento casual e sportivo, si definisce come una compagnia di attivisti, e si è sempre distinta per le sue azioni singolari in difesa dell’ambiente e dei diritti. Ad esempio, Patagonia devolve l’1% di ogni sua vendita alla salvaguardia dell’ambiente, e nel 2016 ha addirittura donato il 100% dei ricavi per il Black Friday ad organizzazioni ambientali, per un totale di 10 milioni di dollari.
Negli ultimi anni si è anche battuta fortemente contro i provvedimenti dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump che prevedevano una riduzione della terra protetta negli USA; nel 2017 l’azienda ha addirittura citato in giudizio il magnate statunitense per la riduzione del 50% del Grand Staircase – Escalante National Monument e dell’85% del Bears Ears National Monument. Singolare anche la scelta presa di fornire i propri gilet solo ad aziende che si impegnano per il proprio impatto ambientale, sancendo di fatto la fine dell’utilizzo del gilet come simbolo dei lavoratori di Wall Street.
Parlando di dati, nel proprio report, Patagonia sostiene che il 100% dell’energia elettrica che viene utilizzata ad oggi dall’azienda negli Stati Uniti provenga da energie rinnovabili e che il 64% dei propri materiali provenga da fonti riciclate. Anche da un punto di vista del marketing, Patagonia si è sempre distinta con campagne come “Don’t Buy This Jacket”, in cui si invitavano i clienti a non comprare il loro giubbotto più simbolico, siccome non era ecosostenibile, oppure “The President Stole Your Land” e “Vote the Assholes Out” riguardo alle forti prese di posizioni contro i provvedimenti di Trump.
4) Cosa ci aspetta nel futuro?
Nonostante le molteplici campagne degli ultimi anni, la strada per raggiungere gli obiettivi prefissati è molto lunga e piena di ostacoli. Ciò che emerge dagli ultimi appuntamenti rilevanti del mondo della moda, in particolare le Fashion Week, ci si può rendere conto di come la salvaguardia dell’ambiente sia ancora molto lontana dall’essere una priorità per le aziende: su 315 occasioni come conferenze stampa e passerelle nel 2020, solo il 26% dei brand ha citato la sostenibilità e si tratta in maggioranza di piccoli brand. Nonostante le emissioni siano calate negli ultimi mesi, soprattutto a causa della pandemia e della significante riduzione degli spostamenti, le previsioni stimano un aumento significativo delle emissioni di gas serra nei prossimi anni; e soprattutto, il COVID ha indebolito economicamente molte aziende, facendo sì che calasse l’attenzione verso il tema dei cambiamenti climatici. Con la speranza che la fine della pandemia possa far ritornare l’attenzione principale su queste cause, noi stessi possiamo contribuire con alcune piccole azioni come l’attenzione verso la provenienza e la composizione dei materiali, la scelta di pellami cosiddetti “conscious”, l’esclusione di capi in poliestere e un lavaggio corretto dei nostri capi mirato al basso spreco.
N.B. Per approfondire il tema della sostenibilità legato al settore della moda e tessile, il team SuitUp ti consiglia di leggere il libro “Moda, Design e sostenibilità“.
Dicci la tua nei commenti qui sotto e leggi l’articolo “Nemo’s Garden: Hai mai visto un giardino sottomarino?” su SuiUpblog 🙂
Articolo redatto in collaborazione con l’amico Luca Mazzesi!